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Mesia

Detto anche disegno animato, costituisce un film di corto o lungometraggio a disegni che in proiezione risultano animati per la persistenza delle immagini sulla retina. Il procedimento “immagine per immagine” tipico del cartone animato, ha preceduto l’invenzione stessa del cinema illustrandone i primi passi artistici. Tuttavia, il disegno animato è stato sempre considerato un prodotto minore rispetto al film con attori.
La tecnica consiste nella ripresa di disegni oppure oggetti inanimati fotogramma per fotogramma, permettendo di creare in proiezione l’illusione del movimento: si possono realizzare film d’animazione partendo da disegni, diagrammi, sagome articolate o pupazzi. L’animazione di disegni si realizza attraverso la ripresa singola di una serie di disegni leggermente diversi l’uno dall’altro, in modo da rappresentare le diverse fasi del movimento. Precedentemente all’animazione, viene registrata una pista audio, utile agli animatori, per permettere loro di regolarsi sul numero di disegni da realizzare. In un secondo momento, vengono aggiunti anche doppiaggio, effetti sonori e musica.
Sono stati molti i pionieri dell’animazione in varie parti del mondo (Francia, America, Gran Bretagna, Germania ed a Oriente, il Giappone con i “doga eiga”, divenuti poi “Anime”). Negli anni ’30, però, Walt Disney “monopolizzò” il genere, arrivando a formare un vero e proprio impero personale. Pseudonimo di José Guizao Zamora, nato a Chicago da genitori spagnoli, fin da ragazzino aveva avuto grande passione per gli animali. Già a cinque anni, con matite colorate ritraeva tutti gli animali presenti nella fattoria in cui viveva con la famiglia. Sull’aia compariva anche un topolino, da lui battezzato Mickey Mouse, che Disney riprodusse nelle pose più svariate. Non dimenticando mai il suo “amico” della fanciullezza, tanti anni dopo, il disegnatore non esitò ad immortalarlo rendendolo famoso in tutto il mondo. E così ecco Topolino, che insieme a tanti altri personaggi ideati e disegnati dall’artista, sono diventati protagonisti di cartoni animati conosciuti in tutto il mondo.

Dal turco Kahvé, risalente all’arabo qawha (bevanda stimolante), è una pianta originaria della regione del Caffa in Etiopia, dove cresceva spontanea. A partire dal XVIII secolo, i maggiori Stati europei ne diffusero la coltivazione nelle colonie africane, asiatiche e americane, ottenendo risultati favorevoli in Brasile che divenne il maggior produttore.
Nelle piantagioni viene mantenuta ad un’altezza di circa 2,5 m., ma può raggiungere i 10 m.; a ramificazione biforcuta, presenta foglie semplici, ovate, fiori bianchi e profumati a forma di imbuto, raccolti a grappolo sotto le foglie. Il frutto è una drupa rossastra, simile a una ciliegia, che contiene uno o due noccioli, ciascuno dei quali custodisce un seme con una faccia convessa e l’altra piana e solcata. Il clima ideale per la coltivazione di questa pianta, si trova nelle regioni comprese tra i due tropici: sono necessarie terre poco ventilate, acide, ricche di humus con temperatura media che oscilla tra 20 e 30 gradi, piovosità abbondante, ben distribuita e moderata esposizione al sole. La produzione dei frutti ha il suo inizio nel quarto anno di vita della pianta, per poi aumentare con gradualità fino a raggiungere il massimo verso l’ottavo anno, dopodiché si mantiene costante fino al dodicesimo. In seguito, il prodotto diminuisce, per cui, anche se la pianta del caffè dura all’incirca trent’anni, il periodo produttivo di coltura risulta inferiore. E’ stato stimato che ogni anno, un alberello nel suo periodo fecondo offre circa 1kg. di prodotto commerciale. Dopo che è stato colto, deve essere messo in lavorazione entro quattro o cinque ore per evitare che fermenti e quindi inacidisca. I metodi di lavorazione sono a secco o a umido: col primo il frutto viene disteso al sole e lasciato seccare fino a formare un guscio duro e coriaceo. I grani seccati vengono poi decorticati, puliti e classificati secondo la grossezza. Nel procedimento a umido, il caffè viene raccolto in grandi serbatoi in cui l’acqua trasporta i frutti attraverso particolari setacci e tenuti per trentasei ore nelle pile di fermentazione per asportare i residui zuccherini. Dopo l’essiccamento si procede con la torrefazione, insufflando aria calda: il tempo di permanenza ne determina il gusto.
La bevanda preparata per infusione si diffuse dai Paesi arabi, in tutto l’Oriente e quindi in Occidente, con la prima tappa a Venezia. Sorsero così locali pubblici per sorbire la bevanda che nel Settecento e Ottocento furono luoghi di ritrovo e di vita culturale e politica. Il caffè ha azione stimolante sul sistema nervoso centrale e sull’apparato circolatorio a causa della caffeina ed è quindi controindicato nelle malattie gastriche ed intestinali.
In commercio si trova in grani o macinato, ma anche prodotti sottoposti a speciali trattamenti, come il caffè solubile, che si scioglie immediatamente in acqua calda; il caffè liofilizzato, che risulta molto più diluibile del normale caffè in polvere, mantenendo abbastanza inalterati aroma e gusto; il caffè decaffeinato, privo di caffeina, allo scopo di eliminare le caratteristiche sostanze nervine originarie; il caffè d’orzo, preparato con la polvere ottenuta dalla macinazione dei semi di orzo.

11 ottobre 1796. Con una comunicazione al Direttorio, Napoleone Bonaparte annunciava la nascita della Legione Lombarda, unità militare riconosciuta dall’Amministrazione Generale della Lombardia. La sua bandiera di guerra si ispira a quella francese, ma il colore blu viene sostituito con il verde, rifacendosi alle uniformi della Milizia cittadine milanese che ha questa tonalità. Nello stesso anno, i delegati di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia annunciarono la nascita della Repubblica Cispadana e, probabilmente traendo spunto dalla Legione Lombarda, si decise di adottare la stessa bandiera di tre colori. Il 27 dicembre del 1796, in un’assemblea riunita a Reggio Emilia, 110 delegati approvarono la carta costituzionale della repubblica Cispadana e, successivamente, tra i vari decreti, come simbolo della repubblica costituita, fu scelto il tricolore. Pochi mesi dopo, il vessillo a bande verde, bianca e rossa, fu ufficialmente adottato anche dalla Repubblica Cisalpina in un incontro tenutosi a Milano. Qui, Napoleone stesso consegnò solennemente le bandiere tricolori ai reparti militari passati in rassegna.
Negli anni compresi tra il 1802 e il 1805, la repubblica Cisalpina si trasformò in Repubblica Italiana, così come la disposizione dei colori sulla bandiera, che però rimasero gli stessi. Con la Restaurazione, il tricolore in Italia non venne più mostrato, tornando poi a sventolare solo in epoca risorgimentale. Fu scelto da Giuseppe Mazzini come simbolo della Giovine Italia e nel 1835, Giuseppe Garibaldi lo portò con sé nel suo esilio nel sud America. Divenne emblema della lotta per l’indipendenza e accompagnò i fratelli Bandiera nel tentativo, poi fallito, di sollevare gli abitanti del regno delle Due Sicilie. Goffredo Mameli e Michele Novaro nel loro “Canto degli italiani”, divenuto inno nazionale dal 1946, fanno riferimento alla bandiera italiana, richiamando la speranza di diventare infine un’unica nazione sotto una sola bandiera. Anche nello sport viene introdotta l’idea nazionalista: maglia tricolore per il ciclista campione d’Italia, così come lo scudetto sulle maglie della squadra vincitrice del campionato nel calcio, nel rugby, nella pallavolo e nelle altre discipline.
I colori della bandiera italiana sono in ordine il verde, il bianco ed il rosso a partire dall’asta, indicati nell’articolo 12 della Repubblica Italiana del 27 dicembre 1947. L’alzabandiera avviene alle prime luci dell’alba e l’ammainabandiera, di sera. In presenza di altri vessilli, va alzato per primo ed ammainato per ultimo. La sua esposizione è resa obbligatoria negli uffici pubblici, esternamente alle scuole, alle università, agli edifici che ospitano le operazioni di voto, alle prefetture, questure, palazzi di giustizia e uffici postali centrali.
L’area espositiva più importante che custodisce le bandiere tricolori italiane si trova nel complesso del Vittoriano a Roma, in cui sono esposte circa 700 bandiere storiche. Il tricolore più antico qui conservato, risale al 1860.

Nella civiltà greca antica, si giungeva a cercare una relazione con il soprannaturale durante il sonno. E da qui, si associavano le parole ai numeri o si interpretavano numericamente, attraverso dei simboli o del loro significato, il nome delle persone. In greco, gimatriah, etimologicamente simile alla parola geometria, divenne sorgente della cabala o kabbalah, in ebraico “dottrina ricevuta”. Le culture cabalistiche ebraico-cristiana e quella egizia-alessandrina erano fortemente intrecciate nell’interpretare numeri e loro significati.

A Napoli, in cui fu profonda l’impronta ellenica, non fu difficile l’accoglienza di tali tradizioni. Ai tempi di Carlo di Borbone, la città partenopea era molto presa dall’esoterismo di origine egizia, portata dalla presenza alessandrina stabilita nel centro della Neapolis greco-romana. Nella seconda metà del 1700, ci fu una vera e propria definizione dell’usanza di sfidare la fortuna puntando sui numeri. Di qui si cominciò a non puntare più casualmente, ma attraverso l’interpretazione dei sogni o a determinati accadimenti della quotidianità. Nasce la Smorfia napoletana, il cui termine deriva forse da Morfeo, divinità greca del sonno. La parola lotto è invece di origine germanica: hleut stava a significare i giochi a sorteggio in genere.

Il lotto a Napoli divenne una vera e propria “malattia”, che coinvolgeva chiunque. Il frate domenicano Gregorio Maria Rocco, tentava di frenare il fenomeno diffuso, sostenendone l’immoralità e l’estraneità in un Regno di matrice cattolica. Carlo di Borbone e il Rocco giunsero ad un compromesso: tutte le giocate sarebbero state sospese nella settimana delle feste di Natale, per evitare “distrazioni”. I napoletani, però, ormai troppo affezionati a quella pratica, si organizzarono diversamente. In occasione del Natale del 1734, ci si inventò estrazioni del lotto “casalinghe”. I numeri scolpiti nel legno, erano estratti a sorte da un’urna abbozzata. Le cartelle disegnate a mano, ospitavano quindici numeri casuali da coprire con dei fagioli che aiutavano a tenere il conto. Nacque la tombola. L’etimologia del termine non è definibile, forse dovuta ai “capitomboli” dei numeretti girati nell’urna.

Nel 1860, Giuseppe Garibaldi, entrando in Napoli, sancì l’abolizione del gioco del lotto, che resistette solo tre anni. La tradizione era ormai inarrestabile. Tutti gli altri stati italiani ne subirono l’influsso, decretando il lotto e la tombola, giochi della Nazione unita. Napoli restò unica città ad assicurare maggior introito fra tutte le province italiane. Anche il giorno stabilito per l’estrazione, fu traslato dall’abitudine napoletana del primo Ottocento di sorteggiare i numeri di sabato al Palazzo della Vicaria. Solo nel 1997 fu deciso di aggiungere un secondo giorno per le estrazioni ed un terzo nel 2005.

Anche la tombola ha visto la propria diffusione al di là dei confini campani e italiani: il Bingo americano è figlio di quella matrice partenopea. Gli emigranti portarono con loro cartelle, numeri, panierino e fagioli, beans; chi riusciva a coprire l’intera cartella gridava beano in un americano alterato, termine successivamente sostituito da bingo. La tombola napoletana era sbarcata oltreoceano, seppur separata dalla tradizione e dall’impulso primitivo: la suggestiva, misterica “smorfia”.

Il jeans, o meglio blue jeans trova la sua etimologia nella parola Jeane o Jeannes, l’antico nome francese di Genova. In passato, era uso definire i tessuti con il proprio luogo di produzione ed il termine Jeane era spesso presente sul fustagno che giungeva a Londra dalla repubblica marinara di Genova. La stoffa fu presto apprezzata per la robustezza ed il costo. Dal XVI secolo, fu utilizzata anche dalla marina genovese per equipaggiare navi e per la vestizione dei marinai.
Nel 1853, il tedesco Levi Strauss, partito da New York per San Francisco in cerca di fortuna, aveva recato con sé alcuni capi di abbigliamento subito venduti ai passeggeri della nave. In valigia gli rimase soltanto qualche tessuto per i tendoni dei carri. Una volta giunto a destinazione, ne ricavò dei pantaloni che i minatori, in cerca di stoffe robuste, apprezzarono subito. Ma il tessuto troppo ruvido non risultava comodo. La scelta cadde quindi sul tessuto denim (da Nimes in Francia), così Strauss non fece altro che confermare la scelta già adottata dai marinai e portuali genovesi. L’inventiva del popolo italiano rimase impressa nel nome di quei pantaloni da lavoro nati a Genova. Successivamente, un cliente di Strauss, il sarto Jacob Davis, pensò di fissare le tasche in modo sicuro utilizzando rivetti di rame, ma troppo povero per fare domanda di brevetto, si rivolse proprio a Strauss che acconsentì ed entrambi riuscirono poi ad ottenerlo.
Composto di tessuto denim, non necessariamente di colore blu, il jeans è in filato di cotone, ha trama bianca o écru e l’ordito blu. Prima che i coloranti chimici giungessero nell’industria tessile, il blu veniva ricavato da estratti naturali di piante. Simile al fustagno, è da tempo utilizzato largamente soprattutto tra i giovani, in quanto costituisce abbigliamento informale e per questo poco adatto per certe occasioni o circostanze.

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