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Mesia

La Commissione Federale sul commercio degli Stati Uniti, ha fatto una scelta clamorosa. Quella dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) è stata di tono minore, ma entrambi gli enti governativi, negli ultimi mesi hanno avvertito la necessità di fare chiarezza sul contenuto dei prodotti omeopatici. Negli Stati Uniti, per non essere accusati di pubblicità ingannevole, i produttori di rimedi omeopatici dovranno precisare sulle etichette e nel materiale informativo che non esistono prove scientifiche in base alle quali, i loro prodotti, basati su teorie settecentesche e smentite dagli esperti di oggi, possano funzionare. La Direttiva europea del 1992, poi confermata nel 2001, mentre autorizza la registrazione dei prodotti omeopatici liberandoli dal dover dimostrare la loro efficacia, già stabilisce che sull’etichetta si precisi che questi non hanno alcuna indicazione medica approvata. Inoltre, in Italia, a fine 2016, è stato precisato che anche per i prodotti omeopatici deve valere l’obbligo di elencare in dettaglio sull’etichetta o sull’eventuale foglietto illustrativo, il contenuto di eccipienti. Le forme farmaceutiche solide solitamente usate sono granuli in contenitori monodose e granuli in contenitori multidose, costituiti in prevalenza da saccarosio e lattosio e più raramente amido. Le forme liquide per uso orale sono costituite da soluzioni idro-alcoliche. Da ciò deriva che in omeopatia, nella maggior parte dei casi, essendo il ceppo omeopatico di partenza notevolmente diluito, la composizione quantitativa in eccipienti costituisce l’effettiva composizione quantitativa della formulazione. In pratica, poiché oltre allo zucchero e all’alcol, i prodotti omeopatici contengono solo eccipienti, è giusto sapere di cosa si tratta. Diversamente dai farmaci veri e propri che devono essere sottoposti a lunghi, rigorosi e costosissimi studi per dimostrare sicurezza ed efficacia prima di essere immessi sul mercato, quelli omeopatici sono oggetto di una procedura di registrazione semplificata. Il fatto che non contengono traccia di principi attivi dovrebbe mettere al riparo dal rischio che possano far male. Per la stessa ragione, però, non possono nemmeno fare bene, al di là dell’effetto placebo, capace di lenire disturbi minori che , in ogni caso, passerebbero da soli. La loro prescrizione da parte di professionisti in camice bianco (medici o farmacisti), può tuttavia trarre in inganno i pazienti, privandoli di cure che potrebbero essere loro realmente utili. Anche per questo, oltre che per ristabilire un principio di corretta concorrenza con i medicinali di documentata efficacia, la Commissione del governo degli Stati Uniti ha chiesto che, in assenza di queste prove, gli articoli omeopatici riportino sull’etichetta la scritta “non funziona”. Un gesto di rispetto nei confronti dei 3,3 milioni di consumatori che nel solo 2007, in America hanno speso quasi 3 miliardi di dollari per acquistare questi prodotti, nella speranza che potessero apportare loro qualche beneficio.

L’omeopatia é una teoria medica secondo cui le malattie devono essere curate con dosi piccolissime di quei farmaci che siano capaci di produrre gli stessi sintomi della malattia in questione. La scuola omeopatica fu fondata da Hahnemann alla fine del XVIII secolo e si basa sul concetto di somministrare piccole dosi di farmaci aventi effetti simili ai sintomi della malattia. Pertanto nella medicina omeopatica, una volta accertata la forma morbosa, si scelgono i farmaci che ne riproducono il più fedelmente possibile la sintomatologia e si somministrano al malato a dosi ridottissime. E’ probabile che negli effetti curativi delle terapie omeopatiche abbiano un ruolo essenziale le influenze psicologiche della medicazione, in modo del tutto simile a quello osservabile con la somministrazione di sostanze farmacologicamente inerti, come il placebo.

La Sindone, termine greco che deriva da “sindon”, parola anticamente usata per indicare un lenzuolo o un ampio pezzo di stoffa, è un telo rettangolare di lino, che si presenta di colore giallastro e misura 4,36 metri di lunghezza per 1,10 di larghezza. Lo spessore del tessuto è di 34 centesimi di millimetro ed è piuttosto consistente, anche se non ne viene pregiudicata la morbidezza. Di manifattura rudimentale, il lino utilizzato per la sua realizzazione è stato filato a mano. L’intreccio del tessuto è irregolare e indica che il tessuto è stato lavorato con un telaio piuttosto semplice. Controversa, ma popolarissima reliquia, la Sindone avrebbe avvolto il corpo di Gesù dopo la morte: sono i segni lasciati sul telo a descriverne l’attribuzione. L’uomo “impresso” è stato flagellato, coronato di spine, crocifisso con chiodi e il suo costato è stato trapassato da una lancia. Oltre all’immagine di un uomo, sul lino sono visibili tracce di sangue corrispondenti alle ferite del corpo e piccole impronte lasciate da monete, fiori e scritte. L’impronta del corpo appartiene ad un uomo non anziano con barba folta e capelli lunghi, dalla struttura salda e muscolosa. Il cadavere, deposto su metà lenzuolo, ha lasciato due impronte. Il telo era stato fatto passare al di sopra del capo e quindi adagiato sul corpo fino all'altezza dei piedi. Come si è formata quest’immagine? Secondo i risultati scientifici, non risulta prodotta con mezzi artificiali. Non è un dipinto o una stampa, perché sulla stoffa è assente qualsiasi pigmento. Cosa significa? Vuol dire che se si trattasse di un dipinto, l’autore avrebbe dovuto utilizzare un pennello con un’unica setola e con questa colorare ogni singola fibra di lino. L’ipotesi sulla formazione dell’immagine avanzata da qualcuno, è quella di un lampo di energia che si attenua con la distanza tra il corpo e il lenzuolo. Le parti del corpo a contatto con il telo sono infatti più marcate, mentre lo sono di meno quelle che non vi erano accostate. Per comprendere le difficoltà di spiegare l’origine dell’immagine, basta soffermarsi sul volto: i lineamenti non corrispondono a quelli che si otterrebbero dall’impronta di un lenzuolo avvolto intorno al capo e al corpo di un uomo, perché ne risulterebbe allargata e deformata. Negli anni ’80 vennero svolte delle indagini per attribuirle una data utilizzando il radiocarbonio. Emerse una datazione di epoca medievale, che dunque indicherebbe che la Sindone sia un falso. Ipotizzando che il telo sia un manufatto d’epoca medievale, un abilissimo falsario lo avrebbe cosparso con pollini di provenienza mediorientale e con tracce di aloe e mirra, nonché “spolverato” con un tipo di carbonato di calcio come quello ritrovato in alcune grotte di Gerusalemme, sarebbe riuscito a procurarsi due piccole monete coniate nel 29 d.C. da mettere sugli occhi del cadavere, le cui tracce si sono riscontrate sulla Sindone. Inoltre, in epoca medievale, nessuno poteva avere le conoscenze archeologiche e storiche sulle modalità della flagellazione e crocifissioni romane. L’autore dell’eclatante “falso” avrebbe poi dovuto immaginare o prevedere l’invenzione del microscopio, avvenuta alla fine del XVI secolo, per poter aggiungere elementi invisibili ad occhio nudo.


Fin dal secolo VII si parlava della Sindone conservata prima a Gerusalemme, poi a Costantinopoli. Nel medioevo molte città europee affermavano di possedere quella vera: il telo in questione che risulterebbe autentico, è conservato dal 1578 nel Duomo di Torino. Più si compiono indagini, più si dimostra una finestra aperta sul mistero. Più si analizza, meno si è in grado di spiegare come si sia formata l’immagine di quell’uomo alto 1,78 m. Un testimone muto, ma per alcuni tratti sorprendentemente eloquente.

Ingredienti per 6 persone:

  • Riso, g. 450
  • Carne tritata g. 150
  • Burro g. 100
  • Mollica di pane, una grossa noce
  • Sale – Farina – Olio –
  • Funghi secchi, un pugno
  • Salsicce
  • Pisellini ripassati al prosciutto, 6 cucchiai
  • Mozzarella, g. 200
  • Sugo di pomodoro
  • Brodo
  • Parmigiano grattugiato, 8 cucchiai
  • 2 uova
  • Un tuorlo d’uovo
  • Latte, un bicchiere
  • Noce moscata
  • Pangrattato

 

Procedimento

Impastare la carne tritata con un pezzettino di burro e la mollica di pane tenuta a bagno nell’acqua e poi premuta. Condire l’impasto con il sale e formare delle polpettine piccolissime, non più grandi di una nocciola, passarle nella farina e friggerle nell’olio, senza farle seccare troppo. Far rinvenire i funghi secchi in acqua fredda e dopo averli scolati, cuocerli con un pochino di burro e qualche cucchiaiata di brodo o di acqua e sale. Tagliare a fettine la salsiccia precedentemente cotta in padella e la mozzarella a dadini. Il riso andrà cotto nel sugo, come un risotto, aggiungendo man mano acqua o brodo. Toglierlo dal fuoco senza aver ultimato la cottura, condirlo con tre o quattro cucchiaiate di parmigiano e le uova, verificando la giusta quantità di sale. Versare il risotto in un piatto, aspettando che raffreddi. Unire in un’altra casseruola le polpettine, i funghi, le salsicce, i pisellini e condirli con un po’ di sugo tenuto da parte. Far insaporire. Preparare una salsa besciamella con una noce di burro e mezzo cucchiaio di farina; lasciar cuocere un paio di minuti e diluire l’impasto con il latte ed aggiungere il sale. Circa un’ora prima del pranzo, imburrare abbondantemente l’interno di uno stampo liscio da budino, ma senza buco al centro, della capacità di un litro e mezzo e spolverizzare con pane grattugiato, facendolo aderire bene. Con un cucchiaio disporre il risotto sul fondo e intorno alle pareti, lasciandone quattro o cinque cucchiaiate da parte, formare un vuoto in mezzo, come fosse una scatola. In questo vuoto, mettere il ripieno preparato, i dadini di mozzarella e la salsa besciamella. Aggiungere anche una buona cucchiaiata di parmigiano grattugiato e qualche pezzetto di burro. Col riso lasciato da parte, formare un coperchio, pareggiando il riso con la lama di un coltello, spolverizzarlo di pane grattugiato e mettere qualche pezzettino di burro.

Mettere il timballo in forno a calore moderato per una mezz’ora abbondante, fino a che il pane grattugiato sulla superficie formi una crosticina dorata. Togliere il timballo dal forno, senza sformarlo subito: attendere una decina di minuti, perché possa diventare solido. Per una maggiore tranquillità, passare con delicatezza la lama di un coltello tra lo stampo e il timballo in modo da staccarlo, per poi capovolgerlo su un piatto. Va servito caldo.

 

Alla fine del 1499 Leonardo, che viveva a Milano da quasi vent’anni, fu costretto ad andar via: con l’ingresso delle truppe francesi di Luigi XII e il crollo della Signoria sforzesca, aveva perduto il suo grande protettore, Ludovico il Moro. Il pittore, come era sua abitudine, portava con sé i suoi ragazzi di bottega e le sue cose più care: abbozzi di opere che forse non avrebbe finito mai, disegni di anatomia, di astronomia, di meccanica. Leonardo si trascinava dietro anche il suo strano destino, che era quello di non terminare mai le sue opere se non raramente. Una, però, la portò a compimento, forse proprio in quell’epoca: il ritratto detto Monna Lisa o la Gioconda. Secondo l’interpretazione del Vasari, il quadro conservato al Museo del Louvre è Monna Lisa, moglie di Francesco di Zanobi di Bartolomeo del Giocondo, notabile e priore di Firenze, la cui famiglia aveva una cappella nel convento dell’Annunziata, dove Leonardo trovò a lungo ospitalità.

In realtà il Vasari non vide di persona l’opera, perciò parla per sentito dire, descrive una Gioconda con ciglia e sopracciglia che nel quadro non vengono rappresentate. Inoltre afferma che Leonardo cominciò a dipingere questo ritratto a Firenze nel 1505 e che ci lavorò sopra quattro anni senza riuscire a finirlo: nel 1506 Leonardo era ormai lontano da Firenze chiamato a Milano dal nuovo governatore. Per cui, l’enigma restò irrisolto, tanto più che c’è chi ha visto nella misteriosa donna la marchesa di Mantova, Isabella d’Este, altri hanno ipotizzato che la dama ritratta fosse un’amica di Giuliano de’ Medici che essendosi poi sposato, avrebbe rinunciato a ritirare il dipinto dallo studio di Leonardo. La Gioconda, dipinto su una tavola di pioppo di 77x53, rivela i dati della tecnica leonardesca: su una base di chiaroscuro assai sottile, aggiunge man mano strati di pittura trasparente.

Questa pittura non ha quasi spessore: le tracce del pennello non sono visibili neppure ai forti ingrandimenti. Leonardo è riuscito ad elaborare una pittura dalla fluidità e leggerezza particolari, tale da rendere inafferrabile la tecnica. L’incarnato che ormai si mostra quasi livido, appariva in origine più roseo, colore svanito col trascorrere del tempo: le mani invece, dipinte con colori di ocra, hanno conservato una tonalità più calda. Le sopracciglia rasate e le ciglia spuntate, secondo la moda dell’epoca rendono più visibile lo sguardo, conferendogli una leggerezza misteriosa. Nel 1516, Leonardo portò il dipinto con sé in Francia, essendosi lì trasferito su invito del re Francesco I. Dopo la morte dell’artista avvenuta nel 1519, il re acquistò la Gioconda per dodicimila franchi e l’opera pur restando sempre nelle collezioni reali, viaggiò moltissimo prima di arrivare al Louvre nel 1804. L’ultimo a poterla ammirare personalmente fu Napoleone, perché nel 1800 il quadro ornava la sua camera da letto alle Tuileries, quando era Primo Console.

La donna, in tenuta da mattina indicata dall’abito a pieghe elegante, ma semplice e dai capelli sciolti sotto un velo impalpabile, siede su una poltrona semicircolare, contro il parapetto di un loggiato, di cui si intravedono ai lati due piccole colonne sullo sfondo del paesaggio. Questo è diviso in due parti, dal basso in alto. In basso c’è la rappresentazione di una zona di montagna vista dall’alto con una strada serpeggiante a sinistra ed un ponte a più arcate a destra, sopra un fiume che fa pensare all’Adda. La parte alta, invece, è la favola della montagna, una sequenza verticale di monti evanescenti immersa nella nebbia come in una visione magica. Le montagne sullo sfondo si accorderebbero con un’esaltazione della virtù: il monte, all’epoca, è spesso simbolo del difficile cammino verso l’alto. La Gioconda resta l’immagine dell’umanità leonardesca: un’entità universale in cui si uniscono tutti i misteri del cosmo, che Leonardo intuiva da artista e indagava da scienziato.

Nato a Bologna il 25 aprile del 1874, trascorse i primi anni della giovinezza in Italia tra Bologna, Firenze e Livorno e in Inghilterra. I primi studi li compì a Firenze in un istituto privato, continuandoli poi a Livorno dedicandosi in particolare all’elettrotecnica. Nel 1893 cominciò ad interessarsi delle oscillazioni elettriche, che a quell’epoca erano oggetto di studio solo di fisici attraverso ricerche di laboratorio. Nessuno di quegli scienziati, però, aveva pensato di impiegare le onde elettriche per la telegrafia senza filo. Anzi, alcuni di essi, sentito che un giovanetto italiano aveva proposto un nuovo sistema di telegrafia mediante onde elettriche, ne negarono la praticità. Marconi, però, nel 1895 si rinchiuse nella villa paterna e scoprì che collegando un generatore di oscillazioni elettriche a un filo metallico isolato nell’aria (antenna) e alla terra, si otteneva un efficiente radiatore di onde elettriche e che queste potevano essere rilevate alla distanza di 2 km da un ricevitore anch’esso collegato ad un filo metallico e alla terra. Sorsero così le prime due stazioni radiotelegrafiche. Marconi scoprì che la portata delle trasmissioni delle onde elettriche accresceva con l’aumentare dell’altezza delle antenne dal suolo. Intuì pure la possibile praticità ed il grande avvenire della sua invenzione. Erano però necessari grandi mezzi finanziari. Nel 1896 si recò perciò a Londra accompagnato da sua madre, che, attraverso propri parenti che facevano da intermediari, gli fece presentare l’ingegnere capo del Post Office. Costui gli permise di dare una pubblica dimostrazione dell’efficienza dei suoi apparecchi. Successivamente, nel 1897, Marconi dimostrò la possibilità di comunicare ad una distanza di circa 4 km, che poco più tardi giunse ai 15 km. Si sviluppò quindi una gara tra governi delle grandi nazioni per ottenere una pratica dimostrazione del suo sistema di telegrafia. Tra questi l’Italia, con il ministro della Marina Brin che pregò Marconi di ritornare in patria per tradurre in pratica le proprie esperienze di radiotelegrafia sulle navi della R. Marina. Marconi aderì all’invito e successivamente fece lo stesso con Francia e Stati Uniti. Ha data 2 giugno 1896 il primo brevetto Marconi e in seguito vennero rapidamente registrati migliaia di brevetti riguardanti la telegrafia senza fili. Tanti e imprevisti furono gli ostacoli che si opposero allo sviluppo dell’invenzione di Marconi: le alte montagne, la curvatura della terra, la luce solare, le interferenze tra stazioni vicine, le scariche elettriche atmosferiche apparvero all’inizio delle barriere insormontabili, ma Marconi riuscì a vincere genialmente e tenacemente gli ostacoli presentatisi. Nel 1898 creò i primi apparecchi radiotelegrafici con speciali circuiti capaci di garantire l’indipendenza delle comunicazioni contemporanee di più stazioni vicine. Riuscì a dimostrare la possibilità di trasmissione attraverso l’Atlantico, stabilì le prime comunicazioni radiotelegrafiche tra Stati Uniti ed Inghilterra e nel 1907 inaugurò il primo regolare servizio pubblico radiotelegrafico tra Europa e America. A seguito del servizio radiomarittimo stabilito da Marconi a bordo di molte navi, nel 1909 avvenne il salvataggio di equipaggi ed ufficiali di due piroscafi che a causa della nebbia avevano avuto una collisione in pieno Atlantico. Vennero così promulgate leggi speciali per rendere obbligatorio l’impianto di stazioni radio a bordo delle navi. Infatti il salvataggio della maggior parte dei passeggeri a bordo del transatlantico Titanic nel 1912, conferì grande merito al servizio reso dalla radio e dalla perfetta organizzazione stabilita per le comunicazioni marittime. Nel 1924 previde che i successivi servizi radio tra continenti si sarebbe basato su onde corte e nello stesso anno riuscì a trasmettere per la prima volta la voce a mezzo della radiofonia. Tra Inghilterra e Australia.
L’importanza dell’opera di Marconi è stata riconosciuta da governi, università, società scientifiche. Innumerevoli i riconoscimenti assegnatigli tra cui le lauree ad honorem delle università di Bologna, Oxford e Cambridge, le altissime decorazioni e onorificenze a lui conferite da molte nazioni, il premio Nobel per le scienze fisiche, varie medaglie, importanti titoli e nomine.

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